Da tante storie

Nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2006), ricordiamo il contributo delle religioni cristiane alla storia dell’obiezione di coscienza e del servizio civile.

Tra le varie anime del movimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare che si è sviluppato in Italia nel secolo scorso v’è certamente una che si rifà ai fondamenti evangelici, ma che non appartiene alla chiesa cattolica. Come si sa, solo nel 1965, con la costituzione conciliare Gaudium et spes si arriva a un’apertura, seppur timida, della Chiesa cattolica nei confronti di “coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi”, limitandosi a definire “conforme ad equità” il fatto che “le leggi provvedano umanamente” al loro caso. E tuttavia, si dovrà attendere ancora qualche anno perché questa apertura dei padri conciliari venga condivisa dai più. Ben prima dei cattolici, dunque, ad attivarsi su questo tema sono esponenti del mondo evangelico e protestante italiano. A partire dall’immediato dopoguerra.

Nel corso del dibattito sull’articolo 52 all’Assemblea Costituente, ci fu chi, come il socialista Caporali, presentò un emendamento per inserire il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare. L’emendamento venne bocciato dal relatore della commissione perché “in Italia non esistono sette le quali abbiano consacrato una speciale attività sull’argomento”. E per“sette” , come disse il costituzionalista Paolo Rossi (che appoggiò l’emendamento), si intendevano ad esempio “quella dei Quaccheri, ignorate nel nostro paese”. Insomma, il costituente, pur ponendosi il problema dell’obiezione di coscienza, non lo considerò “attuale” per il nostro Paese, relegandolo ad affare di pochi, per di più non italiani e non cattolici.

Questo era il concetto che all’epoca il mondo politico aveva dell’obiezione di coscienza, “molto lontana dalla nostra tradizione” come ha scritto Giulio Andreotti (in: Caritas Italiana, Voci sull’obiezione. La Meridiana, Molfetta 2004).
Ed è questa tradizione che peserà molto sulla storia dell’obiezione nel nostro Paese, anche dopo il 1972, anno dell’approvazione della prima legge che ha riconosciuto il diritto a dire “no” al servizio militare.

Sicuramente il gruppo di obiettori “non cattolici” più numeroso nel nostro Paese, prima e dopo la legge del ’72, è stato quello dei Testimoni di Geova. Non esistono stime ufficiali sulle dimensioni quantitative di questo movimento, ma sicuramente la totalità degli obiettori incarcerati perché Testimoni di Geova ha rappresentato la stragrande maggioranza dei reclusi. I Testimoni di Geova, infatti, hanno da sempre rifiutato non solo il servizio militare obbligatorio ma anche (a partire dal 1972) qualsiasi servizio civile sostitutivo, andando a popolare i non certo accoglienti carceri militari (Peschiera, Roma e Gaeta), in qualità di “obiettori totali”.
Si dovrà attendere fino al 4 aprile 1996, giorno in cui il presidente del Corpo Direttivo mondiale dei Testimoni di Geova, W.L.Barry, annuncia la decisione di lasciare libero ogni seguace di scegliere di svolgere il servizio civile invece dell’obiezione totale.

Oltre ai testimoni di Geova, tra i giovani che rifiutano il servizio militare, preferendo la galera, vi sono molti pentecostali, ma tra i sostenitori del riconoscimento del diritto all’obiezione vi sono anche alcuni pastori valdesi. Dal 31 dicembre 1959 al 3 gennaio 1960, ad esempio, presso il Centro valdese di studi religiosi Agape (nel Torinese), si tenne un “processo all’obiettore” nel quale toccò al pastore Tullio Vinay prendere le difese degli obiettori e spiegarne le motivazioni, anche religiose. Vinay, poi, fu tra i fondatori, nel 1952, del M.I.R.   (Movimento Internazionale della Riconciliazione) insieme al valdese Carlo Lupo e ai  quaccheri Ruth e Mario Tassoni. Il Mir (come era successo in Inghilterra già dal 1917) si impegnò sin dall’inizio per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, sostenendo non solo le proposte di legge in tal senso, ma anche i primi obiettori cattolici, Giuseppe Gozzini e Fabrizio Fabbrini (membro, quest’ultimo, dello stesso Mir).

In effetti, i singoli casi di obiezione di coscienza che vedevano protagonisti giovani valdesi, si rifacevano anche a una tradizione antimilitarista da sempre presente nella vita della comunità fondata da Pietro Valdo nel XII secolo e che vede nei valdesi come i primi “pacifisti” all’interno del protestantesimo. Successivamente, quasi tutti i movimenti evangelici nati dalla Riforma luterana, nella loro riscoperta della radicalità evangelica, fecero professione di nonviolenza, rifiutando l’uso delle armi e il ricorso alla guerra, come dimostra la storia degli anabattisti, dei quaccheri, dei mennoniti (comunità fondata da Menno Simons nel XVI sec.), dei “fratelli”,  dei duchobory (perseguitati in Russia per il rifiuto del servizio militare), degli shakers. Una tradizione che non si è fermata al Rinascimento, ma che è arrivata fino ai nostri giorni. Basti pensare, ad esempio, a Martin Luther King, pastore della chiesa battista, che ha difeso il ricorso alla nonviolenza per l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Oppure ai Quaccheri (o “Società degli amici”), comunità cristiana fondata da George Fox nel XVII secolo: durante la prima guerra mondiale, nel 1917, crearono l’American Friends Service Committee per fornire opportunità di servizio civile ai giovani obiettori di coscienza, cui venne assegnato, assieme al britannico The Friends Service Council, il Premio Nobel per la Pace nel 1947.

In conclusione, sebbene anche nelle chiese “protestanti” il rifiuto della violenza e della guerra non sia sempre stato pacifico, tuttavia l’impegno a realizzare fin da subito la profezia di Isaia del “non si eserciteranno più nell’arte della guerra” trova accomunati, pur nella diversità delle singole confessioni di appartenenza, i seguaci di Cristo, “maestro” di nonviolenza.

Diego Cipriani
(già Responsabile dell’Ufficio di servizio civile di Caritas Italiana)

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