Renato Frisanco, ricercatore della Fondazione Roma-Terzo Settore, intervistato da "Redattore Sociale" dà il suo punto di vista sulla situazione del volontariato in Italia e chiarisce il rapporto di quest'ultimo con il servizio civile nazionale e la cooperazione all'estero.
«Siamo nell’Anno europeo delle attività di volontariato, ma quando parliamo di volontariato intendiamo tutti la stessa cosa? Sembrerebbe proprio di no, anzi prevale una certa confusione lessicale, che è un po’ il segno dei tempi». Considerando volontari, ad esempio, i giovani in servizio civile o i cooperanti all'estero: "Una confusione”, fa notare Frisanco. Avendo come “riferimenti valoriali e concettuali la legge quadro nazionale sul volontariato 266/1991 e la Carta dei Valori del Volontariato”, Frisanco ricorda che «alla Conferenza di apertura dell’Anno europeo delle attività di volontariato, a Venezia l’1 aprile scorso, il capo dell’Ufficio nazionale per il servizio civile Leonzio Borea affermava, con orgogliosa enfasi, che i giovani del servizio civile fanno una reale attività di volontariato come dono di sé agli altri o alla comunità e quindi non sono diversi dai volontari comunemente considerati». Un concetto “confusivo”, per lo studioso, perché «manca del tutto il requisito-cardine del volontariato: la gratuità come disinteresse rispetto a un vantaggio economico o di tipo equivalente: ad esempio, l’accesso a un futuro lavoro, al di là dell’acquisizione di competenze che invece riguardano l’esperienza di tutti i volontari». Senza la gratuità non si può parlare di “dono”, bensì di “scambio” tra equivalenti o baratto, conclude l'esperto. Ancora, «con la diminuzione delle risorse statali che impedisce a molti giovani di fare questa esperienza di effettivo valore civico (siamo sotto le 20 mila unità di posti), il servizio civile non manca solo del requisito di 'gratuità' per chi lo fa, ma anche di quello della 'spontaneità', dato che per entrarvi occorre avere un grande 'capitale sociale', ovvero essere 'privilegiati' e quindi, paradossalmente, avere anche meno 'bisogno' di farlo». Insomma, insiste Frisanco, «occorre frequentare buoni ambienti o essere dei raccomandati per poter fare il servizio civile, che di fatto ha fallito nel nostro Paese la sua missione di accostare una parte cospicua di giovani al sociale, ai valori della cittadinanza attiva, a contatto con le organizzazioni di volontariato e di terzo settore in generale». I 300mila giovani che hanno usufruito di questa opportunità dal 2001 al 2010 «non sono affatto un risultato importante dal punto di vista quantitativo, come il capo dell’Ufficio nazionale servizio civile vanta», osserva il ricercatore. Secondo l’ultima indagine multiscopo dell’Istat, che conta i volontari al di sopra dei 15 anni, in Italia sarebbero l’8,5% della popolazione, agendo "sia gratuitamente che solidaristicamente”. Stando a questi parametri, Frisanco ritiene “clamorosa la dichiarazione di una esponente della cooperazione internazionale, convinta che il volontariato dei cooperanti non sia diverso da quello tout court”. Ma la differenza «è sostanziale e di tipo identitario. Nel primo caso vi è la libera scelta di svolgere un’attività di utilità sociale, altamente responsabile, a favore di altre comunità del mondo, ma nel ruolo di professionista remunerato (anche se tale remunerazione può essere al di sotto del livello di mercato)». Il “volontario”, invece, è disponibile a "mettersi gratuitamente al servizio degli altri o di una comunità”, il che “permette rapporti di reciprocità”. Non a caso i più impegnati hanno “una situazione per lo più stabilizzata rispetto a lavoro e famiglia”, mentre i giovani “fanno più fatica ad essere volontari continuativi”. (Fonte: Redattoresociale.it)